Hamaguchi Ryusuke, il grande regista giapponese la cui fama è esplosa dopo Il gioco del destino e della fantasia e Drive My Car, parla spesso del suo amore per Eric Rohmer (e per Cassavetes e Wenders), che è visibile. Ma ci sono dei passaggi nel suo cinema che fanno pensare a Bergman: per la potenza dell’alternarsi di parole e silenzi nel dialogo, accompagnato dall’intensità delle fisionomie in una scansione magistrale delle inquadrature.
In tutto il suo cinema Hamaguchi insiste sul potere della parola; è autore di forte impronta teatrale, nel senso più positivo dell’espressione; non sorprende la presenza ritornante nel suo cinema del teatro di Cechov – «Cechov è terrificante. Quando dici le sue battute, tira fuori il vero te», sentiamo in Drive My Car, in cui una delle linee narrative è la preparazione di una messa in scena di Zio Vanja a Hiroshima. Non per niente è un grande direttore di attori (a Locarno nel 2015, per il lunghissimo Happy Hour il premio per la miglior interpretazione andò a tutte e quattro le protagoniste del film).
Nei suoi film il raffinato tessuto del dialogo è seguito da una regia assai netta, con un bellissimo uso dello spazio. Regista sobrio, con un uso raro dei momenti di enunciazione (quindi, dall’effetto più marcato), Hamaguchi è affascinato dalle vetrate, dalle finestre che escludono il dialogo, dai riflessi. Nel suo cinema, dove sempre ritornano quietamente e misteriose sconvolgenti corrispondenze, esplora l’eterno gioco del caso che si intreccia con le preoccupazioni umane dell’amore, del dolore, del desiderio, della finzione, e, tipicamente, dell’assunzione di responsabilità (Drive My Car).
Una raffinata ed emozionante esplorazione del sentimento, che ne Il gioco del destino e della fantasia mostra in modo definitivo come portiamo nell’amore la nostra soggettività – o, detto in termini più netti, come in amore ci inventiamo le persone. Fino alla confusione dell’identità, come in Asako I & II, o Il gioco nel sublime episodio finale.
In un piccolo villaggio rurale nel cuore della foresta non lontano da Tokyo, Takumi si occupa della figlia Hana, svolgendo lavori saltuari. La serenità della comunità che abita queste terre incontaminate, tra laghi e montagne dove i cervi pascolano liberi, rischia di essere ...
Nella durata monstre di cinque ore e un quarto, racconta in modo fluido e intenso la vita e le “scene da un matrimonio” di quattro amiche trentasettenni: non un’età facile per la donna giapponese.
Tre “atti unici”, affascinanti episodi sul gioco eterno del caso e dell’immaginazione: tre variazioni sull’amore sulle note di Schumann. La potenza del discorso amoroso e la nostra soggettività.
Fonde due racconti di Murakami Haruki per una riflessione alta e straziante sul persistere del dolore umano e sulla sua necessaria consolazione. «Noi vivremo»: e questo è Cechov, nume tutelare del film.