Il regista, attore, produttore e montatore filippino Lav Diaz è ospite a Venezia per la quinta volta. Uno dei maggiori esponenti dello slow cinema (genere filmico che predilige lunghissimi piani-sequenza e uno stile minimalista), Diaz viene ricordato (e a volte forse non visto) per le sue pellicole infinitamente lunghe, caratterizzate da un ritmo lento e contemplativo. Non torna tuttavia mai da un festival a mani vuote. Nel 2008, Melancholia vince la sezione Orizzonti, mentre Lahi, Haypop (2020) viene premiato per la miglior regia. Nel 2014 riceve il Pardo d’Oro al Festival di Locarno con From What Is Before e nel 2016 si aggiudica il Leone d’Oro con The Woman Who Left. Non mancano i riconoscimenti al Festival di Cannes (Norte, the End of History, 2013) e alla Berlinale (A Lullaby to the Sorrowful Mystery, 2016).
Nei lavori di Diaz la storia delle Filippine con tutte le sue ombre, narrata da un occhio interno con estrema sincerità e sensibilità, è quasi sempre protagonista. La dittatura di Marcos, l’oppressione e la violenza politica e sociale sono temi ricorrenti, così come il forte sentimento di ingiustizia e la crisi della classe intellettuale. In tutte le sue pellicole (salvo rare eccezioni) primeggia l’utilizzo di un vivido bianco e nero in cui la luce simboleggia la democrazia, una democrazia che nelle Filippine viene da decenni oscurata dalle forze politiche al potere.
Come comportarsi quando l’istituzione che promette giustizia, equità e protezione alla cittadinanza è la prima a calpestare questi principi compiendo atrocità ed azioni esiziali? Come comportarsi quando l’istituzione in questione è la stessa per la quale si lavora? Que...
Lunghe sequenze attraversano un mondo distorto destinato comunque alla distruzione. La scissione tra i personaggi e il potere centrale induce al caos.
Film a colori, una novità per Diaz. Violenza, rabbia e frustrazione sono il pane comune di Fabian, l’intellettuale sommerso dai debiti.
Polifonia di voci in un villaggio in cui gli abitanti si perdono nel tempo e nello spazio accettando un fato inevitabile.
La malattia di Simoun rappresenta il cancro dell’intera nazione. Il film ricorda che la vera Storia non è mai quella vissuta dai protagonisti, ma dalla gente comune.
La voce del popolo è protagonista, in particolar modo quella di Horacia, appena uscita di prigione. Più ruoli e identità che confluiscono irrimediabilmente in un’unica via, il peccato.