È una specie di ritorno a casa quello di Gianni Amelio alla Mostra, che più volte ne ha riconosciuto la qualità artistica, e non solo con i ripetuti premi. Ancora una volta questo regista imbevuto di umanesimo (sarà la laurea in filosofia) e, peraltro, con alle spalle una notevole carriera di operatore e documentarista realizza un’opera incentrata sulla differenza o, per meglio dire, sulla diversità, posto che il paradigma con una presunta normalità possa reggere. La terribile vicenda umana e giudiziaria di Aldo Braibanti, comunista, pedagogo, omossessuale e mirmecologo (donde il titolo Il signore delle formiche), ognuna singolarmente di queste qualità di per sé adatta a porlo nella categoria del ‘diverso’, specie in quell’Italia bigotta e provinciale, non è altro che la logica prosecuzione della carrellata di dolenti profili umani da sempre presenti nei suoi lavori.
Spesso accostato al Neorealismo in ragione della vividezza delle sue immagini e dello spessore dei personaggi, Amelio va oltre le categorie conferendo anche un respiro internazionale alle vicende che narra: basti pensare alle pagine di Albert Camus che ispirarono il suo alter ego ne Il primo uomo oppure in Lamerica, quando era l’Italia la terra promessa di migliaia di emigrati albanesi. Volti che ormai da decenni ci sono familiari e che però erano all’epoca tanto stranieri (pure loro ‘diversi’) quanto lo erano gli immigrati dal sud che compaiono in Così ridevano.
Il costante richiamo alla figura del padre (padri di fatto ma anche figure paterne come il giudice di Porte aperte), cioè qualcuno a causa della cui assenza si rischia di pagare dazio nella vita, nelle opere di Amelio è strettamente legato agli ambienti in cui si muove un’umanità che sembra correre dietro alla Storia, che quasi mai si ferma ad attenderla.
Ispirata alle vicende umane e giudiziarie del drammaturgo e poeta Aldo Braibanti, una storia vera italiana datata alla fine degli anni ‘60, quando l’intellettuale venne condannato a 9 anni di reclusione con l’accusa di aver plagiato – ovvero aver sottomesso alla propri...
È l’opera prima che divide critica e pubblico. Un occhio empatico ma equidistante su una vicenda negli anni del terrorismo, nella quale padre e figlio si contrappongono fra il politico e il personale.
Accade un fatto di cronaca nera nell’Italia del fascismo che nasconde le magagne sociali: nel processo che ne segue un giudice severo (l’immenso Gian Maria Volonté) si mette – invano – contro la pena di morte. Romanzo e sceneggiatura di Leonardo Sciascia.
Emigranti eravamo noi e adesso lo sono altri: miserie e nobiltà si intrecciano in una vicenda di sfruttamento e umana pietà. Non se ne esce gran che bene e il grottesco finale ci ricorda che la nemesi è sempre dietro l’angolo.
Non accade nessun miracolo a Torino, i soliti meridionali abbastanza brutti e sporchi, magari non cattivi, ma decisamente fuori posto e fuori luogo. Leone d’Oro per una storia in cui da ridere non c’è proprio niente.
Vita, trasfigurazione e morte di un politico italiano magnificamente interpretato (reinventato sarebbe un termine migliore) da Pierfrancesco Favino: considerato il personaggio, le controversie non potevano mancare. Gianni Amelio osservatore terzo, lavora per immagini e tanto basta.